giovedì 29 marzo 2012

Recensione a FRANCO FERRAROTTI: “IL PARADOSSO ITALIANO” (di Antonio Catalfamo)

Sono ormai lontani i tempi in cui i partiti, i sindacati, i movimenti come Comunità di Adriano Olivetti, i dipartimenti universitari, si dotavano di prestigiosi centri-studio e conducevano analisi sulla realtà economica, politica, sociale del nostro Paese, sulla base di una grande quantità di dati da essi raccolti. Ormai un po’ tutti si accontentano di dati e analisi di comodo forniti dai grandi potentati economico-finanziari, che comandano a livello planetario e che, per diffondere capillarmente la loro visione del mondo, hanno a disposizione i mass-media, il cui ruolo è, nel frattempo, aumentato a dismisura. Perciò il cittadino non ha alcuna autonomia di giudizio. E ciò vale soprattutto per le nuove generazioni, per i giovani, che, attraverso Internet, sono bombardati da una miriade di dati e messaggi non mediati, che cioè saltano il filtro della ragione, e che vanno a colpire la parte emotiva del cervello, ipnotizzando (o narcotizzando) i destinatari.
Solo alcuni autorevoli studiosi, in questi ultimi decenni, hanno cercato di avviare analisi e di fornire elementi di valutazione alternativi rispetto a quelli imposti, in maniera più o meno subdola, dal sistema. Tullio De Mauro ci ha informato periodicamente sui livelli di cultura degli italiani. Vittorio Spinazzola ha analizzato le caratteristiche del mercato editoriale esistente ed imperante nel nostro Paese. Emergono dati allarmanti: due terzi degli italiani non leggono né un libro, né un giornale. Franco Ferrarotti ha condotto un’analisi sociologica a trecentosessanta gradi. Grazie a lui il lettore di buona volontà, quello coscienzioso, che non si accontenta delle verità prefabbricate nei laboratori del consenso, messi in piedi dai “padroni del vapore”, può conoscere il volto reale, non edulcorato, del nostro Paese.
Gli studi di Ferrarotti sono articolati, tengono, cioè, conto della complessità della realtà, che non si può ingabbiare in poche, superficiali formule, né in slogan che veicolano la cosiddetta “cultura in pillole”.
Un’ulteriore conferma ci viene da un volume, recentemente pubblicato per i tipi dell’editore Solfanelli. Il titolo è significativo: Il paradosso italiano. Il nostro Paese, difatti, è complesso e, per studiarlo a fondo, bisogna guardarlo in tutte le sue sfaccettature. Ne verrà fuori, magari, un’immagine contraddittoria, paradossale, ma queste contraddizioni non possono essere nascoste. Bisogna metterci le mani dentro, lavorare col bisturi a dissezionare il tessuto sociale, scrutarlo minutamente, cioè scientificamente, per capirlo a fondo e per trovare possibili soluzioni.
Scrive, difatti, Ferrarotti, nella Prefazione: «L’Italia è un Paese paradossale. Società antichissima e Stato unitario di appena un secolo e mezzo; per trenta secoli rurale e artigianale e di colpo, in poco più d’una generazione, società industriale. […] Afflitto dalla povertà almeno dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 dell’era volgare, con i suoi circa settanta milioni di abitanti, l’Italia rappresenta l’1% della popolazione mondiale, che è di circa sette miliardi; ma questo un per cento detiene il 5% della ricchezza planetaria. Occorre subito soggiungere che, da calcoli attendibili, il 10% delle famiglie italiane possiede circa il 70% della ricchezza nazionale». I “paradossi” si moltiplicano: nonostante lo sviluppo industriale, avvenuto nel giro di poco più di una generazione, fra il 1950 e il 1980, lo Stato italiano rimane debole, a causa di «fenomeni di insorgenza locale» (il leghismo al Nord, un riemergere dell’autonomismo, che talvolta assume i caratteri del separatismo, al Sud, in particolare in Sicilia e in Sardegna); all’interno dello Stato operano organizzazioni criminali (la mafia siciliana, la ’ndrangheta calabrese, la camorra napoletana), che, visto il loro forte radicamento economico-sociale, si configurano come veri e propri Stati nello Stato.
Un tentativo di analisi e, men che mai, di soluzione, non è venuto dalle forze politiche. Le tre grandi tradizioni culturali che hanno operato ed, in parte, operano nel Paese – la cattolica, la marxista e la liberal-democratica – non trovano, o forse neanche cercano, una chiave di lettura degli avvenimenti. Scrive, infatti, Ferrarotti: «La classe dirigente italiana mira a durare più che a dirigere. A parte i corrotti corruttori, appare composta da fini dicitori che tendono a tradurre i problemi etici in enunciati estetici, le questioni politiche in perorazioni retoriche. Nessuna meraviglia che tendano ad autocongratularsi, senza rendersi conto che nella Grecia classica, loro supposta progenitrice, era noto e praticato l’encomio, ma solo praesente cadavere». E’ il “teatrino della politica”, al quale assistiamo quotidianamente, attraverso i talk-show televisivi, nei quali ogni fazione sostiene tutto e il contrario di tutto, si rimangia l’indomani ciò che ha sostenuto oggi, come ha ben evidenziato in un suo saggio, intitolato La tenaglia (Editori Laterza, Roma-Bari, 2008), Natalino Irti, insigne teorico del diritto. E questo “teatrino” diventa ancor più macabro e inconcludente, nel momento in cui il nostro Paese è stato “commissariato” dai potentati economico-finanziari europei e la classe politica nazionale non conta più nulla. La finta lite è ormai scopertamente finalizzata ad ingannare l’elettore, a dare l’impressione di uno scontro politico sulle cosa da fare, che, nella realtà, non c’è. Un gioco delle parti, nel quale ognuno cerca di occupare quanto più sedie istituzionali può, togliendole all’altro.
Lo diciamo con rammarico: la stessa ideologia marxista, che tra quelle sopra citate dovrebbe essere l’unica alternativa al sistema capitalistico, in questo momento non appare in grado di elaborare analisi adeguate, né indicare soluzioni, almeno nel nostro Paese. Assistiamo, anche qui, ad uno scontro tra fazioni, che, spesso, è motivato da ragioni personalistiche, da lotte tra clan e gruppi vari. Da questo guazzabuglio non viene fuori una sintesi unitaria, un partito credibile, che sappia cogliere l’eredità ideologica e culturale del marxismo italiano, che pure ha avuto una rispettabile tradizione.
Insomma, dopo secoli di storia, per riprendere la famosa espressione di Massimo D’Azeglio, fatta l’Italia, dal punto di vista istituzionale, bisogna ancora fare gli italiani. Osserva opportunamente Ferrarotti: «Ma intanto, per farli, gli italiani, bisogna conoscerli – e non in generale, avallando antichi miti che non meritano avallo, bensì nel circoscritto, specifico configurarsi dei loro atteggiamenti, alle prese con determinate strutture, condizioni ambientali, “contesti”, come usa dirsi. Cioè: costruire, pezzo a pezzo, come un mosaico, senza pretendere di scontare la ricerca prima d’averla fatta, con umiltà, il cartogramma culturale italiano». E di tessere musive Ferrarotti, in questo prezioso volume, ne mette insieme parecchie, fino a delineare il mosaico, «il cartogramma culturale italiano», appunto.
L’illustre sociologo non fornisce ricette miracolose, ma dà indicazioni metodologiche molto importanti per analizzare la realtà. Certo i dati statistici sono importanti, guai a prescindere da essi: non si sente più il polso della realtà. Ma bisogna andare oltre il loro arido susseguirsi, entrare nel vissuto reale della società, analizzare come i fenomeni si configurano nei contesti concreti. Scrive Ferrarotti: «Come procedere? Sicuramente per ottenere una risposta è opportuno studiare più a fondo metodi e approccio di rilevazione qualitativi, che, oltre all’elaborazione dei moduli economici, tengano presente il contesto socio-culturale di riferimento e il vissuto dei singoli».
L’Italia è un Paese ricco o un Paese povero? Questa domanda non può avere una risposta astratta, ma calata, per l’appunto, nel vissuto concreto, nell’articolazione dei contesti reali. Abbiamo già detto all’inizio che nel nostro Paese, anche se esso può annoverarsi tra i sei o sette più ricchi del mondo, questa ricchezza non è equamente ripartita, in quanto il 10% delle famiglie detiene il 70% della ricchezza nazionale. Si tenga, inoltre, conto della grave condizione giovanile: la disoccupazione, per i giovani fra i 18 e i 25 anni, sfiora il 30%. Fra l’altro, si tratta di una media nazionale, il che significa che nel Mezzogiorno questa percentuale aumenta notevolmente, in certe aree raddoppia. Eppoi vanno considerati fenomeni come l’evasione e l’elusione fiscale e l’esistenza «di un vasto settore dell’economia che si è convenuto di definire “economia sommersa”, vale a dire nascosta, ufficialmente non esistente e statisticamente non conteggiabile, anche se può essere plausibilmente considerata intorno al 30-33%, ossia un terzo abbondante, dell’economia globale (la stima ufficiale la colloca al 18-20%)». Si tratta di fenomeni che introducono elementi di ingiustizia e sperequazione tra i cittadini, tra chi, avendo un reddito limitato, paga le tasse, anche al di là delle proprie possibilità, e chi non le paga e non subisce alcuna sanzione da parte dello Stato, accrescendo in maniera illecita la propria ricchezza. La stessa attuale configurazione del cosiddetto “mercato”, la sua considerazione come valore assoluto, distorce il concetto stesso di ricchezza, che, oltre alla dimensione economica, deve comprendere anche quella etica, rappresentata dal sistema dei valori. Leggiamo, ancora, nel volume di Ferrarotti: «Una società in cui il mercato prevalga su tutto, caratterizzata quindi da un’economia di mercato sovrastante e debordante, rischia di vedersi ridotta a società di mercato, vale a dire a una società inaridita, moralmente essiccata, in cui tutti i rapporti umani sono degradati a rapporti utilitari e viene meno l’idea stessa di prossimo come valore in sé e per sé».
Anche sulla povertà va fatto un discorso articolato: «Il mondo della povertà è […] un mondo complesso, che pone all’analisi sociale una sfida molto ardua, sia sul piano teoretico della descrizione e dell’interpretazione critica, sia dal punto di vista delle eventuali misure da attuare». Esistono, nel nostro Paese, nuove forme e nuove dimensioni di povertà, legate a fattori socio-economici, ma anche psicologici, che si intrecciano tra di loro. Conseguentemente, secondo Ferrarotti, «le concezioni tradizionali della povertà si possono usare con attente cautele critiche. La concezione della povertà di ascendenza marxistica è sempre necessaria, ma non più sufficiente, nel senso che lo stato di povertà non è più soltanto il risultato di determinanti di tipo strutturale.
Nella situazione odierna si danno aspetti e elementi di natura socio-psicologica e immateriale che sono rilevanti». Ferrarotti contesta quello che lo stesso Marx definì «marxismo volgare», che interpreta in chiave deterministica e meccanicistica i rapporti tra «struttura» e «sovrastruttura». Per fortuna, nella tradizione marxista italiana ha un posto di assoluto rilievo il pensiero di Gramsci, che rivaluta la componente soggettiva ed individua la reciproca influenza tra «struttura» e «sovrastruttura», secondo l’insegnamento di Antonio Labriola. La configurazione dello stato di povertà «non dipende solo da indicazioni numeriche che, almeno in apparenza, non si prestano a equivoci. Sono chiamate in causa categorie più raffinate, che fanno perno su polarità concettuali altamente problematiche come possibilità-opportunità di partecipazione ai processi sociali, e quindi inclusione e appartenenza, oppure emarginazione e quindi esclusione sociale, consolidata o variamente mobile».
Vanno richiamati, in particolare, alcuni tratti caratteristici della povertà odierna: «Un tempo, probabilmente fino a trent’anni fa, poveri si nasceva; oggi, poveri si diventa. Per la prima volta, nella storia dei paesi industrializzati, la generazione presente non sembra riuscire a mantenere la condizione, la dignità e il livello di prestigio sociale ed economico raggiunto dalla generazione precedente». E ancora: «In tutte le società tecnicamente progredite sono in aumento condizioni di disoccupazione involontaria e di precariato. Nasce la figura del proletario-intermittente. Si registra un’inedita erosione socio-economica, con evidenti segni di squilibrio di status e perdita di identità, dei ceti intermedi. Le impostazioni delle ricerche in chiave unilaterale, sia economicistica che psicologica, non riescono a dar conto della complessità del fenomeno».
Questo libro di Franco Ferrarotti, in conclusione, dovrebbe essere letto sia dalla gente comune, che vi troverebbe le risposte alle domande sulla realtà sociale che la circonda, a meno che non voglia accontentarsi dell’immagine edulcorata fornita dai mass-media, sia dalle cosiddette “persone colte”, dal ceto intellettuale, dalla stessa classe politica, soprattutto da quella che si dichiara alternativa al sistema, perché troverebbe in esso quegli elementi analitici che sono necessari per l’azione, cioè per passare poi alla lotta per il cambiamento sociale.

Antonio Catalfamo

• Franco Ferrarotti, Il paradosso italiano. La povertà di un paese ricco, Solfanelli editore, Chieti, 2012, pp. 138, euro 11,00

martedì 3 gennaio 2012

LA SCIENZA NUOVA DOPO IL TOTALITARISMO

La grande lezione di Giuseppe Capograssi

Prigioniera di una vita da zombi, l'ostinata passione degli antifascisti impedisce di capire che la dottrina del fascismo, espressione della scolastica neo-hegeliana, è una pagina di storia filosofica superata dalle giovani avanguardie e chiusa nella notte sul venticinque luglio 1943.
Il rispetto che si deve alla nobile figura di Giovanni Gentile non può nascondere il fatto che del fascismo rimane l'eredità dei protagonisti della scuola milanese di mistica, che, al seguito della scienza nuova di Vico, finalmente letta alla luce della fede cattolica, professata dal grande napoletano, tracciarono la via italiana al superamento delle abbaglianti dottrine di Hegel e dei neohegeliani.
Porto sicuro, aperto ai delusi dalle moderne rivoluzioni e ai refrattari allo storicismo, la restaurata filosofia vichiana testimonia la vitalità del Novecento italiano. Per questo la lettura della Scienza Nuova, è impedita dalla navigata perizia dei progressisti, naufraganti nei gorghi prodotti dell'immanentismo assoluto.
Contraddicendosi, l'università fascista ha nutrito il pensiero degli irriducibili oppositori all'idealismo e ai suoi succedanei. Fascisti stimati e approvati da Benito Mussolini furono i i commentatori continuatori di Vico, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Nicola Petruzzellis, Carmelo Ottaviano, Marino Gentile, Niccolò Giani, Guido Pallotta, Nino Tripodi. E Giuseppe Capograssi (1889-1956), oggetto di un avvincente saggio di Vincenzo Lattanzi, edito in questi giorni da Solfanelli in Chieti e presentato con prosa vivida e amicale da Francesco Mercadante.
Agile e puntuale l'opera di Lattanzi ricostruisce la storia di Capograssi, la sua infanzia a Sulmona, la frequentazione del liceo a Macerata, il corso di laurea nella facoltà di giurisprudenza a Roma, l'inizio dell'attività pubblicistica nella redazione della rivista Coenubium diretta da Giuseppe Rensi, l'impiego nel Consorzio dell'Agro Pontino, la stesura di Pensieri a Giulia [Giulia Ravaglia, che sposerà nel 1924], i primi contrastati tentativi di accedere all'insegnamento universitario, il sodalizio con Giorgio Del Vecchio, l'assunzione del primo incarico universitario nel 1932, le riflessioni su Agostino, Tommaso, Vico Pascal e Rosmini, e lo svolgimento della sua geniale attività di interprete della filosofia del diritto.
Si affaccia la tentazione di attribuire a Capograssi il prezioso titolo di antifascista tesserato. Lattanzi scrive infatti che nel 1932 il filosofo si iscrisse al Partito nazionale fascista "prendendo la tessera del pane, come la chiamava". Se non che di seguito Lattanzi, correggendosi, precisa che dell'espressione "tessera del pane" [che getterebbe l'ombra furbesca dell'ipocrisia sulla personalità del filosofo] "non si è rinvenuto mai alcun riscontro documentale, né nell'opera né nella corrispondenza di Capograssi".
Il fatto è che in quegli anni, la cultura italiana, grazie all'iniziativa dei giusnaturalisti pacificamente tesserati, quali furono appunto Del Vecchio e Capograssi, stava producendo gli antidoti alle suggestioni totalitarie ricevute dai neo hegeliani, Bertando Spaventa, Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Penetrato nel cuore della filosofia post-fascista di Capograssi, Lattanzi rammenta, infatti, che "E' in Vico che si ritrova l'humus dal quale emergono i tratti profetici, più lungimiranti, più vividi e suggestivi del pensiero di Capograssi, quelli dedicati all'individuo, allo stato ed al diritto e che preparano la critica dello stato contemporaneo, fonte di progressiva spoliazione dell'identità del soggetto e di depauperamento della spontaneità della vita sociale".
Ora la critica dello stato moderno è inseparabile dalla critica da quella filosofia moderna che ebbe origine dalla scolastica decadente e dalla rivoluzione cartesiana.
Nel solco della tradizione vichiana, Capograssi iniziò il suo cammino di ricerca dal riconoscimento dell’influsso decisivo che il vuoto intellettualismo di Cartesio esercitò nelle rivoluzione moderne: “Con Cartesio tutta la realtà nasce dal fatto del pensare che l’essere sparisce di fronte al pensare. La mente dell’uomo fa la realtà e Dio ridotto all’idea conserva la sua esistenza solo in virtù del grande e pericoloso argomento escogitato da Sant’Anselmo, fino a che anche questo è totalmente criticato e l’antica idea di Dio è abolita. Sulla direzione aperta da Cartesio col suo cogito lavora tutto il pensiero moderno. ... La vera rivoluzione è qui e non nelle rivoluzioni politiche che poi seguirono. Da questo sovvertimento di tutto il reale nasce tutta la squilibrata epoca moderna e le sue rivoluzioni e le sue distruzioni” (1).
L'evidente prossimità del punto di vista di Capograssi con quello del Maritain maurassiano, l'autore di Antimoderno e dei Tre riformatori, dimostra l'infondatezza dei ragionamenti sull'antifascismo di Capograssi [al suo maestro Del Vecchio peraltro nessuno ha mai attribuito la passione antifascista] e avvia alla comprensione della natura atipica della sua presenza del partito democristiano.
Una presenza, quella di Capograssi, che purtroppo non ha lasciato un segno nel refrattario partito democristiano. Partito fin dalla fondazione indirizzato all'accoglienza di quella teologia unitiva del Vangelo e delle ideologie moderne, che causerà lo sfascio della società italiana, oltre che l'alterazione di vaste area delle cultura cattolica.
Se una politica conforme alla dottrina sociale della Chiesa cattolica è ancora possibile questa non può cominciare che dalla sostituzione dello storicismo maritainiano con la teologia della storia vichiana puntualmente interpretata e aggiornata da Capograssi.

Piero Vassallo




NOTE
1) Cfr. “Riflessioni sulla autorità e la sua crisi”, Lanciano 1921, sta in Opere, Giuffré, Milano 1959, vol. I, p. 337.



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